Il diritto di critica consiste nell’espressione di un giudizio o di un’opinione sull’esito di un’attività posta in essere da soggetti terzi.
L’Art. 21 della Costituzione recita: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
L’art. 1 della L. n. 300/1970 prevede che “i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
Apparentemente, tali principi parrebbero cozzare con l’obbligo sancito a carico del lavoratore dall’art. 2104 comma 2 c.c. di osservare le direttive impartite dal datore di lavoro. Infatti, tale osservanza è richiesta anche quando le direttive non siano gradite dal dipendente. Ciò accade perché la scelta sul merito dell’organizzazione aziendale è di competenza esclusiva del datore di lavoro.
Il confine tra le norme citate è fine e consiste nella tutela dell’onore, della reputazione e del decoro, che entrambe le parti del rapporto di lavoro devono, reciprocamente, rispettare per essere conformi ai canoni di correttezza e buona fede sanciti dagli articoli 1175 e 1375 c.c.
Dunque, al lavoratore subordinato è garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, ma con il limite che le espressioni utilizzate non siano offensive e siano fondate su fatti veri.
La Corte di Cassazione (sent. 1379/2019) ha sancito che, per essere lecita, l’esposizione dei fatti deve essere obiettiva, evitando strumentalizzazioni o manipolazioni. Tuttavia, essendo il diritto di critica soggettivo per natura, non si può pretendere dal lavoratore una narrazione rigorosamente obiettiva e asettica.
Inoltre, gli ermellini di Piazza Cavour hanno statuito che la critica espressa con modalità esorbitanti dall’obbligo di correttezza formale può di per sé arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento che l’efficienza di quest’ultima riposa, in ultima analisi, sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti (Cass., Sez. lavoro, n. 9635/2016).
È dunque chiaro che ogni messaggio debba essere valutato in un contesto, ovvero nel rapporto tra spazio e tempo in cui viene espresso. Ciò anche tenendo conto dello standard di sensibilità sociale del tempo e del contesto professionale ove si colloca.
Il limite è superato ove il lavoratore attribuisca al datore qualità apertamente disonorevoli, perché contenenti riferimenti volgari e infamanti e cariche di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio da parte delle collettività.
Si veda in proposito il principio enunciato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 24260/2016: “l’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore che non si contenga entro i limiti del rispetto della verità oggettiva e si traduca in una condotta lesiva del decoro dell’impresa, costituisce violazione del dovere di cui all’art. 2105 cod. civ. ed è comportamento idoneo a ledere definitivamente il rapporto di fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro”.
Il social network è un sistema di comunicazione che integra il concetto di “mezzi di pubblicità”, perché consente la trasmissione di dati e notizie ad un numero elevato di persone. Per tale motivo la giurisprudenza di merito ha rilevato che “[…] attraverso tale piattaforma virtuale, invero, gruppi di soggetti valorizzano il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Tali peculiari dinamiche di diffusione del messaggio screditante, in uno con la loro finalizzazione alla socializzazione, tuttavia, sono tali da suggerire la inclusione della pubblicazione del messaggio diffamatorio sulla bacheca “Facebook” nella tipologia di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”[…] (Cass. Pen. 4873/2016). La giurisprudenza amministrativa ha persino qualificato Facebook come sito pubblico (T.A.R. Friuli-V. Giulia Trieste Sez. I, 12/12/2016, n. 562).
Pertanto, se il lavoratore decide di esercitare il proprio diritto di critica su social network, deve prestare adeguata attenzione ad attenersi al vero e a non offendere nessuno.
Inoltre, il lavoratore ha anche l’onere di astenersi dall’intraprendere iniziative che possano rivelare informazioni e notizie riservate afferenti l’azienda datrice di lavoro.
Attenzione ai “Like!” -> il T.A.R. Lombardia Milano, Sez. III, con l’ordinanza n. 246/2016, ha riconosciuto la responsabilità disciplinare del lavoratore che aveva cliccato “mi piace” su un articolo postato in Facebook contenente espressioni lesive all’immagine e alla reputazione del datore di lavoro.
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