La Corte costituzionale, con la sentenza n. 213 del 2016, ha stabilito il principio secondo cui anche al convivente di una persona disabile, che si occupi quindi dell’assistenza in favore del partner malato o invalido, ha diritto di usufruire, come i coniugi e i parenti fino al secondo grado, dei tre giorni di permesso mensile retribuito e coperto da contribuzione figurativa previsti dalla legge 104 del 1992.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, un dipendente dell’ASL di Livorno instaurava una controversia nei confronti della stessa ASL per ottenere il riconoscimento del diritto ad usufruire dei permessi di assistenza previsti dall’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, a favore del proprio compagno, con cui conviveva e che risultava portatore di una gravissima ed irreversibile disabilità (nello specifico il morbo di Parkinson), chiedendo, di recuperare nei riguardi dell’azienda, in tempo e in denaro, le ore di permesso che erano state da lei utilizzate per garantire l’assistenza già prestata al proprio convivente per un pregresso periodo di circa sette anni, su autorizzazione della stessa datrice di lavoro, che gliela aveva successivamente revocato asserendo che non sussistessero legami di parentela, affinità o coniugio con l’assistito.
Il giudice del lavoro presso il Tribunale solleva, in via incidentale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 “nella parte in cui non includeva il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità”, per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione. In tal senso il giudice riteneva che la suddetta norma censurata, non includendo nei possibili beneficiari dei permessi retribuiti il convivente more uxorio contrastava con l’art. 2 Cost., in quanto non avrebbe permesso al soggetto interessato dalla grave disabilità di beneficiare della piena ed effettiva assistenza nell’ambito di una formazione sociale che lo stessa aveva contribuito a determinare e in cui si era venuta sviluppando la sua personalità; con l’art. 3 Cost., congiuntamente agli artt. 2 e 32 Cost., poiché avrebbe prodotto una discriminazione irragionevole, con riferimento all’assistenza da garantire mediante il godimento dei permessi retribuiti, tra il portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto e il soggetto versante in identiche condizioni appartenente ad una famiglia fondata sul matrimonio, in tal modo ledendo il diritto alla tutela della salute psico-fisica della persona affetta da handicap grave, nonché alla tutela della dignità umana e, quindi, dei diritti inviolabili dell’uomo, beni primari non collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o affinità.
La Corte quindi, dopo aver ricostruito il contesto normativo di riferimento e aver individuato dettagliatamente i profili di illegittimità rispetto alle norme richiamate, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.
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