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Data Aggiornamento: Agosto 2021

Rappresentatività sindacale: nuovi orizzonti

La disciplina del rapporto di lavoro, pubblico o privato, si costruisce, nel nostro ordinamento giuridico, attraverso un processo di negoziazione che si instaura tra due parti ben definite: datori di lavoro e lavoratori, che partecipano attraverso i rispettivi.

La contrattazione collettiva rappresenta il principale frutto di tale attività di concertazione, posto che costituisce il risultato dell’incontro e del confronto tra gli interessi, spesso non coincidenti, delle parti del rapporto di lavoro. Essa ha una doppia funzione: da un lato fissa le condizioni economico-normative del rapporto di lavoro subordinato, divenendo così punto di riferimento per la regolamentazione del contratto individuale di lavoro, dall’altro regola i rapporti tra i soggetti protagonisti della contrattazione collettiva.

In particolare, i CCNL sono strumenti di espressione dell’autonomia privata (data la mancata attuazione di quanto disposto dall’art. 39, comma 2 Cost.) ed, infatti, le norme che li disciplinano sono esclusivamente quelle contenute nel codice civile relativamente ai contratti in generale (art. 1321 c.c. e ss). Pertanto, il CCNL ha forza di legge tra le parti e produce i suoi effetti solo nei confronti delle parti collettive direttamente stipulanti, ovvero le associazioni sindacali rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, nonché dei soggetti individuali appartenenti alle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro che lo hanno stipulato.

Ebbene, dall’assenza di una legislazione ad hoc in tema di contrattazione collettiva, nonché dalla natura privatistica del CCNL, discendono una serie di conseguenze e di problematiche interpretative ed applicative, tra le quali merita un’attenta analisi la questione relativa alle modalità di individuazione delle parti del contratto. E’ necessario, pertanto, interrogarsi sul concetto di rappresentatività sindacale, per comprendere tra quali soggetti il CCNL può essere validamente e legittimamente stipulato ed esplicare i suoi effetti.

Il principio di rappresentatività sindacale trova origine nella Costituzione, il cui art. 39 attribuisce ai sindacati, previa registrazione, il potere di stipulare contratti collettivi nazionali di categoria, vincolanti per tutti i lavoratori appartenenti alla categoria produttiva oggetto di contrattazione. Tale potere è di fatto subordinato alla creazione di una delegazione sindacale unitaria, che comprenda tutti i sindacati registrati, ognuno rappresentato in proporzione ai propri iscritti. A ben vedere però, tale disposto non ha mai trovato attuazione, in parte a causa dell’inerzia del legislatore, alla quale è conseguito un vero e proprio vuoto normativo, ed in parte a causa delle reticenze dei sindacati, contrari ad un sistema di registrazione nazionale percepito come esclusivo e non inclusivo.

Ciò posto, come si individuano i soggetti legittimati a partecipare alla contrattazione collettiva?

A tale quesito il legislatore aveva cercato di dare una risposta all’interno dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970), precisamente all’art. 19, nel quale, prima della parziale abrogazione, erano delineate le modalità di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, alle quali, di fatto, potevano partecipare esclusivamente i sindacati in possesso di alcuni precisi requisiti. Tale norma nella sua formulazione originaria prevedeva, infatti, che: «rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». Era quindi evidente come il riconoscimento di tale diritto di partecipazione alle sole associazioni sindacali qualificate era destinato a porsi in contrasto con il dettato costituzionale, in particolare con il principio di cui al primo comma dell’art. 39, che istituisce un diritto incondizionato di libertà e organizzazione sindacale.

A tale prima esperimento normativo sono seguiti ulteriori timidi tentativi, da parte del legislatore, di disciplinare e dare forma ad un principio, quello della rappresentatività sindacale che tende inevitabilmente a sfuggire ad una rigida definizione e collocazione ma che, per soddisfare esigenze comuni, proprie sia dei datori di lavoro che dei lavoratori stessi, deve essere delineato.

L’impasse normativa, le incertezze del legislatore e le prese di posizione ideologiche dei sindacati, hanno così creato uno stato di incertezza pratica che, come spesso accade, ha richiesto, per la sua definizione, l’intervento riparatore della giurisprudenza. Numerosissime sono, infatti, le pronunce della giurisprudenza di merito e non, che, nel corso degli anni, hanno cercato di portare ordine e di costruire delle linee guida in tema di rappresentanza sindacale, nell’intento di semplificare il processo di formazione del contratto collettivo nazionale.

Punto di partenza dell’evoluzione giurisprudenziale è il concetto di rappresentatività, che va costruito sulla relazione fra organizzazioni sindacali e categorie rappresentate e che  esprime un giudizio diretto a valutare l’idoneità di un sindacato a compiere atti in nome e per conto della categoria di riferimento e nasce «in funzione selettiva dall’esistenza di un numero limitato di posti da attribuire e dall’impossibilità di ricavare un diritto alla partecipazione istituzionale dal principio di libertà sindacale» (C. Cost. 5 febbraio 1975, n. 15). Nell’assolvere il difficile compito affidatole, la giurisprudenza, in particolare di legittimità, ha tentato di individuare gli indici della rappresentatività in un primo momento legando la rappresentatività a criteri di grandezza ed estensione territoriale. Pertanto, in tale ottica, erano legittimate a partecipare alla contrattazione collettiva le rappresentanze sindacali, datoriali e dei lavoratori, con più iscritti e più presenti nel territorio nazionale.

Dietro la spinta della dottrina, la giurisprudenza di legittimità ha iniziato ad esaminare il fenomeno della rappresentatività anche sotto un profilo dinamico, attribuendo rilievo a circostanze quali «l’attività di autotutela condotta con continuità, sistematicità ed equilibrata diffusione» (Cass. 18 luglio 1984, n. 4218) ed ancor più alla partecipazione dell’organizzazione sindacale a trattative sindacali volte alla stipulazione di contratti collettivi.

La parziale abrogazione dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori (nel quale scompare ogni riferimento alle organizzazioni sindacali “maggiormente rappresentative”) ha evidentemente inciso sulla costruzione dei parametri di rappresentatività, tanto che, ad oggi, il criterio di selezione delle organizzazioni sindacali ai fini della partecipazione alla contrattazione collettiva è rappresentato dalla capacità del sindacato di proporsi come interlocutore alla controparte, al di là della quantità di lavoratori rappresentati. La giurisprudenza di legittimità ha sottolineato come il concetto di rappresentatività si presenti ora in chiave di effettiva “rappresentatività negoziale“: «in seguito al referendum abrogativo relativo all’art. 19 della legge n. 300 del 1970 l’acquisto dei diritti sindacali nell’azienda viene oggi ad essere condizionato unicamente dal dato empirico di effettività dell’azione sindacale costituito dalla rappresentatività negoziale» (Cass. 20 aprile 2002, n. 5765; Cfr. Cass. 2 dicembre 2005 n. 26239). Ancora, la Suprema Corte ha affermato che «in tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell’effettività dell’azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi» (Cass. 11 gennaio 2008, n. 520).

Ebbene, alla luce dell’analisi svolta, non può non esprimersi un senso di insoddisfazione per l’incapacità del legislatore di regolamentare un processo, quale quello di formazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, che è alla base della disciplina generale del rapporto di lavoro. D’altro canto, l’intervento della giurisprudenza, che ha permesso di riempire in parte tale vuoto normativo, è certamente da considerarsi “riparatore” nello sforzo di delineare i principi ed i criteri che datore di lavoro e lavoratore sono chiamati ad adottare in sede di contrattazione collettiva.

In conclusione, è possibile affermare che, nella scelta del contraente controparte in sede di contrattazione collettiva, il datore di lavoro ben potrebbe, in ossequio agli orientamenti giurisprudenziali citati, confrontarsi con un’associazione di lavoratori che, seppur numericamente inferiore o non particolarmente estesa sul territorio, sia effettivamente in grado di rappresentare i diritti di categoria. Senza, infine, dimenticarsi che le pronunce e gli orientamenti giurisprudenziali sono, per definizione stessa, mutevoli e pertanto ciò che, ad oggi, può definirsi come principio cardine in tema di contrattazione collettiva un domani, parallelamente all’evoluzione della società e del mondo del lavoro, potrebbe non esserlo più.

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