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Data Aggiornamento: Giugno 2021

ACCOLLO E COMPENSAZIONE NEL DIRITTO TRIBUTARIO

Lo Statuto del Contribuente consente di estinguere l’obbligazione tributaria anche mediante accollo da parte di un terzo soggetto, senza liberazione del debitore originario.

Stando a tale previsione, alcune imprese contribuenti (dette accollate) possono stipulare appositi contratti di accollo con terze società (definite accollanti), che si impegnano a pagare i debiti delle accollate mediante compensazione di propri crediti fiscali. Le accollanti ricevono oggi, mediamente, tra il 60% e l’80% del valore nominale compensato. Questo è il prezzo di mercato, dovuto principalmente dalla difficoltà che lo Stato ha di liquidare i crediti di aziende che, per contro, hanno necessità ed urgenza di liquidità. Trattando di contrattazione tra privati, nulla vieta che il prezzo possa essere differente.  

L’Agenzia delle Entrate contesta le predette operazioni sostenendo che siano finalizzate all’elusione della disciplina sulla compensazione, ma anche di quella relativa alla cessione dei crediti di imposta.

L’art. 8 della L. 212/2000 (c.d. «Statuto del contribuente»), stabilisce che “L’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione.” e che “È ammesso l’accollo del debito d’imposta altrui, senza liberazione del debitore originario. (…)». Può accadere così che alcune società propongano ad imprese e ditte individuali di accollarsi i loro debiti con il Fisco, pagando con propri crediti le imposte e i contributi previdenziali dovuti da questi ultimi chiedendo la corresponsione soltanto di una parte del valore nominale del debito compensato. In buona sostanza, attraverso il meccanismo di accollo tributario proposto, il debito tributario viene pagato da una terza società, definita accollante, mediante propri crediti fiscali. Non appena l’accollato vede, sul proprio cassetto fiscale, l’estinzione del debito, corrisponde all’accollante la percentuale concordata del valore nominale del debito compensato.

Il contratto di accollo viene debitamente registrato presso l’Agenzia delle Entrate e la compensazione, se del caso, avviene previa apposizione del visto di conformità in dichiarazione. Ciò viene giustificato sulla base del fatto che il credito d’imposta in capo all’accollante è di difficile utilizzo, essendo, di solito, d’ingente entità e relativo, talvolta, a vecchie agevolazioni.

Tuttavia, sebbene per effetto dell’art. 8 della L. 212/2000 l’accollo tributario sia comunque ammesso, l’Agenzia delle Entrate contesta l’operazione, ritenendola elusiva.

Per completezza d’indagine, parrebbe opportuno una breve digressione intorno all’istituto dell’accollo. Questo è espressamente disciplinato dall’art. 1273 c.c., secondo cui: «Se il debitore e un terzo convengono che questi assuma il debito dell’altro, il creditore può aderire alla convenzione, rendendo irrevocabile la stipulazione a suo favore. L’adesione del creditore importa liberazione del debitore originario solo se ciò costituisce condizione espressa della stipulazione o se il creditore dichiara espressamente di liberarlo. Se non vi è liberazione del debitore, questi rimane obbligato in solido col terzo. In ogni caso il terzo è obbligato verso il creditore che ha aderito alla stipulazione nei limiti in cui ha assunto il debito, e può opporre al creditore le eccezioni fondate sul contratto in base al quale l’assunzione è avvenuta». Nella sostanza, quindi, con l’accollo un soggetto assume negozialmente l’obbligo di estinguere il debito altrui, con eventuale liberazione del debitore originario laddove il creditore aderisca all’accordo.

Peraltro, come chiarito anche dalla giurisprudenza sul tema, assumere volontariamente l’impegno di pagare le imposte dovute dall’iniziale debitore non significa «assumere la posizione di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, ma la qualità di obbligato (o coobbligato) in forza di titolo negoziale», tanto che l’Amministrazione finanziaria non può esercitare nei confronti degli accollanti «i propri poteri di accertamento e di esazione, che possono essere esercitati solo nei confronti di chi sia tenuto per legge a soddisfare il credito fiscale» (Corte Cassazione, SS.UU., sent. 28162/2008).

Tutto ciò premesso, l’operazione prevede che il debito tributario del contribuente (accollato) venga pagato da una terza società (accollante), che lo assolve non pagandolo direttamente, bensì mediante compensazione con un proprio credito, che per varie ragioni non riescono a monetizzarlo. Nel modello F24 vengono indicati due codici fiscali e il codice che determina il «soggetto diverso dal fruitore del credito», istituito con apposita R.M. 286/E/2009.

Infine, il contribuente accollato corrisponde all’accollante una percentuale del valore del proprio debito, risparmiando così la differenza. Il fatto che l’occorsa compensazione sia clausola sospensiva dell’esatto adempimento delle accollante, concede al soggetto accollato di tutelarsi mediante accesso e verifica su entrambi i cassetti fiscali.

Le contestazioni dell’Agenzia delle Entrate circa l’accollo e possibili rimedi.

Con la R.M. 15.11.2017, n. 140/E, l’Agenzia delle Entrate, vorrebbe negare in via generale, che il debito oggetto di accollo possa essere estinto utilizzando in compensazione crediti vantati dall’accollante nei confronti dell’Erario. In particolare, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che, quando l’accollante paga mediante compensazione con un proprio credito, si dovrebbe far riferimento alla disciplina della compensazione di cui all’art. 17 del D.Lgs. 241/1997, che non solo non prevede l’accollo, ma esige che la compensazione avvenga tra i medesimi soggetti. Tuttavia, è la stessa Agenzia delle Entrate a riconoscere le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione dell’art. 8 della L. 212/2000 e dell’art. 17 del D.Lgs. 241/1997, arrivando quindi a considerare come validi e non sanzionabili i comportamenti tenuti in difformità a quanto chiarito in sede di R.M. 140/E/2017 fino al 15.11.2017 (data della pubblicazione della risoluzione citata). I contrati di accollo eseguiti dopo detta data, ancorché stipulati (e quindi anche registrati presso la stessa Agenzia delle Entrate) antecedentemente, non sono ritenuti validi e vengono sanzionati.

Allo stato, parrebbero precluse tanto le compensazioni che gli accolli (sia orizzontali che verticali) a far data dal 15.11.2017. Tuttavia, il diniego parrebbe basarsi su una mera “Risoluzione” dell’Agenzia delle Entrate.

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 5137/2014 ha statuito che: L’Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte dovute e, di fronte alle norme tributarie, detta Amministrazione ed il contribuente si trovano su un piano di parita’, per cui la c.d. interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o in risoluzioni, non vincola ne’ i contribuenti ne’ i giudici, ne’ costituisce fonte di diritto; gli atti ministeriali medesimi, quindi, possono dettare agli uffici subordinati criteri di comportamento nella concreta applicazione di norme di legge, ma non possono imporre ai contribuenti nessun adempimento non previsto dalla legge ne’, soprattutto, attribuire all’inadempimento del contribuente alle prescrizioni di detti atti un effetto non previsto da una norma di legge”

Con il trascorrere del tempo, l’orientamento non sembra mutato. Infatti, anche le 2017 gli Ermellini di Piazza Cavour hanno ribadito l’assenza di valore legislativo di questo tipo di atti ministeriali. Sul punto la Cassazione ha ripetuto che il valore delle “istruzioni” pubblicate dall’Agenzia delle Entrate è meramente interno e non può influire sui diritti, le libertà e le scelte dei cittadini.

Allo stato dunque, le “istruzioni” emanate dall’Agenzia delle Entrate parrebbero prive di idonea copertura legislativa e pertanto dovrebbero considerarsi inopponibili al contribuente. Il primo effetto dell’applicazione delle predette istruzioni sarà quello della mancata concessione del Documento Unico di Regolarità Contributiva alle imprese che si sono avvalse dell’istituto dell’accollo per saldare quanto dovuto all’erario. La mancata concessione o revoca del DURC può comportare danni gravi ed irreparabili alle aziende che subiscono il provvedimento.

In questi casi le prime strategie da applicare, congiuntamente, sono l’apertura di un contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate e la via giudiziaria d’urgenza.

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