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Data Aggiornamento: Agosto 2021

La Step Child Adoption: diritto vivente per tutelare l’interesse del minore

La legge 20 maggio 2016 n. 76, “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, è stata il risultato di un lungo e complesso iter parlamentare con una prima lettura alla Camera del Progetto di legge 3634, trasmessa al Senato il 25 febbraio 2016; successivamente, dal 3 marzo 2016 al 4 maggio 2016  il testo è stato sottoposto all’esame della Commissione e in discussione all’Assemblea fino al 9 maggio 2016, l’iter si è concluso con l’approvazione definitiva l’11 maggio 2016.

Una delle peculiarità della legge 76 è lo stralcio della step child adoption, ovvero la possibilità di consentire l’adozione da parte del convivente, anche dello stesso sesso, del figlio del proprio partner. Il disegno di legge Cirinnà infatti, nella sua iniziale formulazione, consentiva l’adozione per le persone dello stesso sesso mediante una modifica della lettera b) dell’art 44 della l. n.184/1983, prevedendo l’inserimento dopo le parole “e  dell’altro coniuge” anche “o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. Tale parte, come noto, è stata stralciata ed il testo della legge non contiene più alcun riferimento alle adozioni.

Pur essendoci stata tale eliminazione i Tribunali per i Minorenni stanno dichiarando adottabili i figli del partner di un’ unione, anche omosessuale, da parte dell’altro partner non genitore naturale, mediante la clausola generale contenuta all’art. 44, lett. d), ove non è sancita alcuna prescrizione circa il sesso della persona single che adotta. La previsione normativa volutamente generica, implica la volontà del Legislatore, secondo alcuni interpreti, di consentire la possibilità per i single, anche omossessuali, di adottare. Diversamente opinando sarebbe evidente una violazione dell’art. 3 Cost e dell’art. 8 Cedu, nonché la violazione della garanzia della tutela del superiore interesse del minore.

Si richiamano alcune pronunce rilevanti, ovvero la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Roma del 30 dicembre 2015 con cui il Collegio, in contrasto con il parere del Pubblico Ministero, ha dichiarato l’adottabilità, ai sensi dell’art. 44 lett. d) della l. 184/1983, di due minori da parte della madre naturale dell’una, rappresenta l’occasione per una riflessione sull’adozione da parte delle persone che appartengono a coppie omosessuali. La sentenza del  Tribunale minorenni di Roma del  23 dicembre 2015 che ha specificato che l’art. 44 c. 1 lett. d) l. n. 184/1983, come modificato dalla l. n. 149/2001, ha come presupposto «l’impossibilità dell’affidamento preadottivo e non una situazione di abbandono ad esso prodromica». Una lettura di questa norma che escluda la possibilità di ricorrere all’istituto alle coppie di fatto omosessuali a motivo di tale orientamento sessuale sarebbe un’interpretazione non conforme al dettato costituzionale (artt. 2 e 3 Cost.) e in contrasto con l’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 CEDU. Ancora si richiama il Tribunale minorenni Roma  22 ottobre 2015 n. 291  il quale statuisce che è consentita l’adozione (ex art. 44, comma 1, lett. d), l. n. 184/1983) da parte di coppie di conviventi omosessuali, purché nel preminente interesse del minore adottando e pertanto tale norma non deve essere interpretata nel senso di prevedere come presupposto l’impossibilità di affidamento preadottivo solo di fatto, ma anche di diritto, in quanto una diversa interpretazione non consentirebbe il perseguimento dell’interesse preminente del minore (in situazioni in cui, come nella specie, la figlia – ottenuta mediante la procreazione assistita – della donna convivente con quella adottante, abbia con quest’ultima un rapporto equivalente a quello normalmente instaurato con un genitore, al quale tuttavia l’ordinamento negherebbe qualsiasi riconoscimento e tutela). Infine si richiamano la sentenza della Corte europea diritti dell’uomo sez. grande chambre  19 febbraio 2013 n. 19010, secondo cui sussiste una violazione dell’art. 8 Cedu, sul diritto al rispetto della vita familiare, in combinato disposto con l’art. 14 Cedu, sul divieto di discriminazione, nei confronti di una legislazione nazionale che impedisca ad uno dei soggetti di una coppia omosessuale l’adozione del figlio del proprio compagno convivente, al pari di quanto, viceversa, riconosciuto per legge ad una coppia di fatto eterosessuale. Infine si richiama l’ultima pronuncia della Corte di Appello di Torino con cui è stata dichiarata l’adozione del figlio del partner, in due diversi casi. I giudici della Sezione per i minori hanno accolto le richieste presentate da due coppie di donne di adottare i figli delle rispettive compagne. Le domande in primo grado erano state respinte. Nello specifico le sentenze riguardano in un caso la richiesta di una donna che ha ottenuto di adottare il figlio di cinque anni della donna che aveva sposato nel 2015 in Islanda. Nel secondo caso invece la Corte d’Appello ha accolto la richiesta di due donne, conviventi dal 2007 e sposate nel 2014 in Danimarca, che volevano ognuna adottare le rispettive figlie di 7 e 5 anni, nate con inseminazione artificiale. Per entrambi i casi c’era stato il parere favorevole del magistrato della Procura Generale di Torino. Una decisione, quella della Corte d’Appello, motivata dalla volontà di «tutelare una situazione di fatto». I magistrati hanno preso atto delle condizioni positive in cui stanno crescendo i minori, e ricordato come sia applicabile in materia la legge 184 del 1983 che disciplina l’adozione e l’affidamento nelle coppie eterosessuali. In una delle due sentenze si richiama inoltre la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il concetto vita familiare deve essere «ancorato ai fatti»: l’esistenza di un nucleo familiare «non è subordinata all’accertamento di un determinato status giuridico», ma alla «effettività dei legami».

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