Il patto di non concorrenza (art. 2125 cc) è l’accordo attraverso il quale il Datore di Lavoro ed il Lavoratore subordinato stabiliscono di inibire l’attività del Lavoratore, in concorrenza con il Datore di Lavoro, per un certo periodo di tempo successivo alla cessazione del rapporto.
La stipula del patto di non concorrenza rappresenta un elemento non essenziale del contratto di lavoro, ed è rimessa alla volontà delle Parti.
L’inibizione prevista dal patto di non concorrenza è soggetta a limiti precisi.
Essa deve riguardare attività determinate, settori merceologici ben definiti, un determinato ambito territoriale e un certo arco di tempo. La limitazione, oltre ad essere adeguatamente compensata, deve comunque lasciare residui apprezzabili margini di attività al Lavoratore, per evitare che la sua capacità lavorativa dopo la cessazione del rapporto venga compromessa.
La Cassazione, con diverse pronunce tra cui la sentenza n. 23418 del 2021, ha ribadito alcuni principi relativi al patto di non concorrenza.
Il patto di non concorrenza può essere dichiarato nullo. Le ipotesi più frequenti di nullità sono le seguenti.
Il patto di non concorrenza può prevedere una penale a carico del Lavoratore nel caso di mancato rispetto del patto.
Anche la penale deve essere adeguata ai compensi concordati. Una eccessiva quantificazione della penale può essere ridotta ad equità dal giudice su istanza della parte interessata, se ne sussistono i presupposti.
Può essere anche prevista la facoltà per il Datore di Lavoro di verificare il rispetto del patto, attraverso l’obbligo del Lavoratore di comunicare ogni eventuale impegno di lavoro assunto durante la vigenza del patto medesimo, prevedendo il pagamento di penali per ogni giorno di ritardo nella comunicazione.
Il datore di lavoro può altresì utilizzare una forma di tutela contro la violazione del patto di non concorrenza: si tratta della cosiddetta “azione inibitoria” ex art. 700 del Codice procedura civile, volta a far cessare al Lavoratore la condotta concorrenziale.
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