Si definisce prestazione di fatto quella prestazione che, appunto, di fatto, è eseguita dal lavoratore in attuazione di un contratto di lavoro invalido.
In tali ipotesi, la legge stabilisce che, a tutela del lavoratore ed in deroga al principio generale civilistico, per il periodo in cui la prestazione è stata resa, la nullità o l’annullamento del contratto non produce effetto “salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa” (art. 2126, co. 1, cod. civ.). aggiungendo altresì che “Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione” (co.2).
Tale norma ha un’evidente finalità di tutela del lavoratore, salva l’ipotesi in cui il contratto di lavoro abbia una causa illecita rappresentata dalla comune intenzione delle parti di costituire un rapporto previdenziale vietato dalle norme imperative.
Nel rapporto di lavoro non regolare, nullo o annullabile, ma di fatto posto in essere con l’incontro delle volontà di ambo le parti negoziali, il lavoratore può dunque sempre rivendicare la retribuzione maturata e la relativa copertura assicurativa, anche in caso di illiceità dell’oggetto o della causa del contratto, sempre che il lavoro risulti prestato con violazione di norme poste a sua tutela.
Per ciò che concerne il profilo sanzionatorio, il Ministero del Lavoro (cfr. Circolare n. 38/2010), ha chiarito che, fatta salva l’eventuale responsabilità penale, nessuna sanzione riguardante il mancato rispetto delle procedure di assunzione può essere contestata allorquando il rapporto di lavoro non poteva, comunque, essere regolarmente posto in essere, difettando i prescritti requisiti di legge (cd. impossibilità dell’illecito).
L’art. 2126 cod. civ., oltre che in ambito privatistico, è stato oggetto di applicazione anche nel pubblico impiego, nella sua doppia veste di pubblico tout court (anche prima della cosiddetta privatizzazione) e di pubblico privatizzato assumendo la portata di norma generale del rapporto di lavoro in senso lato.
In particolare, nel pubblico impiego privatizzato ancora oggi il richiamo alla norma in questione è largamente adoperato dalla giurisprudenza proprio per colmare quei vuoti causati dall’ambivalente natura del rapporto di lavoro pubblico.
La giurisprudenza è granitica nell’affermare che l’esistenza di una prestazione lavorativa di fatto comporta il riconoscimento del relativo trattamento economico, stabilendo che la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso quello di carattere accessorio, che è diretto a commisurare l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa e precisamente (Cass. Civ., Sentenza 31 luglio 2019, n. 20722): “Ove il dipendente venga chiamato a svolgere le mansioni proprie di una posizione organizzativa, previamente istituita dall’ente, e ne assuma tutte le connesse responsabilità – la mancanza o l’illegittimità del provvedimento formale di attribuzione non esclude il diritto a percepire l’intero trattamento economico corrispondente alle mansioni di fatto espletate, ivi compreso il trattamento di carattere accessorio, che è comunque diretto a commisurare l’entità della retribuzione alla qualità della prestazione resa”.
Sul punto appaiono fondamentali e dirimenti le seguenti pronunce:
– Consiglio di Stato, Sez. V, Sentenza n. 1374/09: che ha ribadito che l’esistenza di una prestazione lavorativa di fatto comporta il riconoscimento del trattamento economico.
Il rapporto di pubblico impiego nullo, in quanto costituito in violazione di precisi divieti di legge, non può essere considerato ipso facto illecito nell’oggetto o nella causa ai sensi dell’art. 2126 cod. civ., con la conseguenza che il lavoratore è comunque legittimato, anche in presenza della nullità, a reclamare in sede giudiziaria i crediti retributivi maturati limitatamente al periodo di esecuzione delle prestazioni, nonché la ricostruzione della propria posizione previdenziale.
– Consiglio di Stato sez. V 14 ottobre 2014 n. 5117: l’art. 2126 cod. civ. enuclea la regola di ampia salvaguardia della prestazione resa in fatto dal lavoratore, a prescindere dalla validità e dalla stessa esistenza del titolo costitutivo.
– Consiglio di Stato sez. III 2 maggio 2014 n. 2285: qualora la Pubblica Amministrazione ponga in essere, sia pure sotto un diverso nomen juris, un rapporto di lavoro avente le caratteristiche del rapporto di pubblico impiego, per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione trova applicazione l’art. 2126 comma 2, cod. civ., con conseguente riconoscimento al lavoratore del diritto alle differenze retributive spettanti.
– Civile Sent. Sez. Lavoro, n. 6046 Anno 2018: la disposizione trova applicazione anche nella ipotesi di nullità di rapporto di lavoro costituito in violazione delle disposizioni che regolano le assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, in quanto gli obblighi retributivi e quelli previdenziali sono connessi con l’attività lavorativa prestata in via di fatto senza che rilevi che il rapporto sia nullo perché instaurato in violazione delle norme che regolano le assunzioni alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Consegue a quanto osservato che il danno subito dal lavoratore derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, risarcibile ai sensi dell’art. 36 c. 2 non coincide affatto con le retribuzioni e i correlati oneri contributivo previdenziali perché questi sono dovuti, in virtù del principio di corrispettività affermato dall’art. 2126 cod. civ. con riguardo alle prestazioni di lavoro svolte dovute durante il tempo di svolgimento in via di fatto del rapporto di lavoro ma comprende anche la perdita di chance ed il danno derivante da precarizzazione.
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